GIULIA MAFAI
La vita artistica nella Roma del dopoguerra
Dalla conversazione tra Giulia Mafai e James M. Bradburne del 9 giugno 2021.
La storia della fervente vita artistica della Roma del dopoguerra raccontata da Giulia Mafai al Direttore James M. Bradburne. Gli intellettuali e i loro due mondi tra i quartieri della città, il forte senso di collettività, il lavoro con Rodari, le opportunità, il cinema e, infine, il ricordo della famiglia e del padre.
Giulia Mafai, la terza e ultima figlia della coppia di artisti Mario Mafai e Antonietta Raphaël, dal 1950 intraprende la carriera di costumista e scenografa, in alcuni dei più noti film italiani. Lavora con diversi registi e attori dell’epoca, tra cui Vittorio De Sica, Mario Monicelli, Sophia Loren, Marcello Mastroianni, Elliott Gould, Harvey Keitel e Keith Carradine. Idea e cura il Laboratorio del Carnevale di Venezia dal 1978 al 1985. Collabora con Gianni Rodari a Il Pioniere tra il 1950 e il 1951; pubblica testi, illustrazioni e fumetti tra cui Sambo, Conoscete gli animali? e Il re detto orecchie d’asino, nel 1951.
GLI INTELLETTUALI E I DUE MONDI
Roma, alla mia epoca, viveva intorno all’idea di quartiere. Il quartiere era un vero e proprio nucleo per chi vi abitava. Io e mio padre stavamo in via Margutta, poi c’era chi abitava in Piazza Mazzini e così via.
I nuclei degli intellettuali a Roma erano due. Uno a Piazza del Popolo, con il Bar Rosati dove potevi incontrare Moravia, la Morante, Pasolini, Enzo Siciliano e i pittori come mio padre, ad esempio. L’altro, più ricco, in Via Veneto, dove i bar costavano molto, gli hotel erano a 5 stelle e le persone erano più legate al mondo del cinema: Fellini, Monicelli, i produttori e i grandi attori americani.
Ti recavi da Rosati a prendere il caffè e se eri un po’ intelligente riuscivi anche con una battuta a intrometterti nelle loro chiacchiere. Oppure andavi da Otello, un luogo straordinario dove si poteva mangiare a debito, saldando il conto solo una volta recuperati soldi, magari vendendo un quadro.
Io stessa a volte andavo da Osteria Fratelli Menghi e lì mi bastava dire: “Paga papà! Paga papà! Paga papà!” ed essendo magrolina e con i polmoni deboli, venivo coccolata: “Mangia Giulia! Non lo vuoi? Aspetta, che ti porto questo… ti prendo quello…” Sembrava di vivere in un grande paese, in uno strano e profondo senso di collettività.
GIANNI RODARI
Lì, in quei luoghi, conobbi Rodari. Era un poeta, un artista, sai? Come un pittore vede la luce e il colore, lui vedeva le parole che diventavano poesia.
Al tempo era impegnato nel progetto del giornale Il Pioniere e stava cercando alcuni collaboratori. Era un giornale di sinistra per bambini.Le sue poesie erano deliziose. Scriveva con garbo,con grazia, ma sempre, alla fine, con un risvolto sociale. Mi proposi e fui presa; guadagnavo due mila lire a striscia di fumetti Pur non essendo molto, mi consentiva di offrire il caffè. Ci aiutavamo.
Modugno veniva in studio da me, in via Ripetta. Veniva, in compagnia del suo paroliere, per prendersi le sigarette che non aveva mai con sé. Io e Rodari invece ci scambiavamo libri: gli prestavo quelli che potevo permettermi. Lui per me era un artista, capace di trasformare le parole in poesia. Era molto ironico e non insegnava, mi offriva i suoi consigli. Da lui ho imparato che l’insegnamento deve essere suggerimento che induce la persona a elaborare, a pensare, a maturare una sua idea. “Che dice signora Mafai? Va bene così? Ce l’ho fatta, che dice?” Era una persona incantevole, un caro amico.
Insieme pubblicammo il suo primo libro, contenente le mie illustrazioni.
Ho lavorato anche in una commedia, scritta da lui insieme ad un mio amico. Si chiamava Il Cortile, se non mi sbaglio. L’abbiamo poi data a un teatro di Genova. Probabilmente, l’unica esperienza di teatro che lui abbia mai fatto. Vedi com’era tra amici? C’era un amico che faceva teatro? “Vieni con me e scriviamo insieme”. C’era un amico che faceva cinema? “Vieni con me e facciamo la sceneggiatura”. Era tutto molto vario, spontaneo, senza ‘comandanti’ ma tutti parte del medesimo collettivo, come si diceva all’epoca.
IL CINEMA
Prima ho frequentato l’Accademia di Belle Arti a Genova, dove abitavo con mia madre. Poi, ho cominciato a lavorare come costumista di cinema e teatro a soli 19 anni mentre frequentavo il Centro Sperimentale di Cinematografia. A 21 anni, avevo già in carico i costumi di una commedia, di uno spettacolo, magari con 40 attori alla volta.
Oggi nessuno affiderebbe a una ragazza di vent’anni una tale responsabilità. Ai tempi era così, forse per necessità. Senza volerlo, noi giovani rappresentavamo una nuova cultura nel panorama italiano rimasto ancora provinciale. Leggevamo Majakóvskij, apprezzavamo, quasi clandestinamente, la poesia spagnola di Neruda e Garcia Lorça. Avevamo un’energia nuova, nuove idee.
Mi ricordo ancora il mio primo film per gli sbagli; erano molti, uno dietro l’altro… Fui incaricata di preparare i costumi di un film di gran moda in quel periodo, ambientato nel Medioevo. Beh, feci, in quell’occasione, tanti di quegli errori che tutte le volte che incontravo il regista, mi vergognavo a tal punto da cambiare strada. Finché, dopo un paio di anni, un giorno mi chiese: “Giulia ti ho fatto qualcosa di male?” e io risposi imbarazzata “No, sono io che mi vergogno. Ogni qual volta la incontro, mi vengono in mente tutti gli errori commessi e il coraggio di salutarLa svanisce!”
LA FAMIGLIA
“Non questa musica, ma questa musica. Non questa pittura, ma questa pittura. Non questi vestiti, ma questi vestiti”. Sono convinta che per saper criticare devi saper proporre. Così era nel Sessantotto. Un vero momento di ribellione, forse l’ultimo. Era una proposta molto diversa da quella che ci aveva preceduto. Era potente in quel senso. Partivamo con dei NO. Criticavamo, con forza, la mediocrità nella borghesia e nella moralità. Noi ragazze ci opponevamo all’idea del matrimonio.
Le mie due sorelle, Miriam e Simona, erano straordinarie. Simona, in particolare, raccontava papà, a 14 anni stava facendo uno studio sulla democrazia socialista e si recava spesso in biblioteca. A 14 anni! Io invece, non ero così. Per i miei genitori, ero un po’ – come dire – ‘astratta’. Stavo sempre in giardino, con i gatti… Non si spiegavano che cosa facessi. Mi chiamavano, Zuleima, invece che Giulia, un nome da danzatrice del ventre e per spronarmi a studiare mi minacciavano di farmi sposare. Rido. Per loro, se non fossi stata colta, se non avessi conosciuto le lingue o se non avessi suonato il pianoforte o il violino, tanto valeva venissi destinata alla vita matrimoniale.
In effetti, i miei genitori si sono sposati quando noi eravamo già grandi, nel 1935. Stavano insieme da 10 anni. La decisione fu imposta da una legge promulgata in quel periodo, secondo la quale, gli stranieri che stavano in Italia da meno di 20 anni dovevano andare a registrarsi o sarebbero finiti nei campi.
IL DOPOGUERRA
I pittori non andavano più bene, i letterati non andavano più bene. E c’è – come sempre dopo le guerre – un desiderio di rinnovamento totale. Non solo della società sociale, ma anche ovviamente della società intellettuale. Mio padre, Mafai, come tanti altri artisti, si trovò spiazzato. Altri artisti ebbero la forza, il coraggio di continuare a essere sé stessi. De Chirico non cambiò una virgola. Morandi nemmeno. Campigli, e potrei citarti altri artisti dell’epoca, rimasero nel loro orto, direbbe Machiavelli.
Mafai no. Mafai non ce la faceva a ritornare a dipingere fiori secchi e le demolizioni. Gli sembrava tutto superato. Ad esempio, negli anni ‘50 Sinisgalli gli chiese di fare la copertina della “Civiltà delle Macchine”, nella quale un particolare ricorda quello delle Fantasie. Lì, i fiori secchi diventano corde ma l’essenza non cambia. Anziché un fiore secco buttato per strada, vi è una corda gettata per strada.
Tra le polemiche e le accuse anche degli amici più cari, rimase il sostegno di pochi tra cui Antonello Venturi, di Argan.
Alla fine se ne è andato; ha detto:
'Arrivederci e grazie, me ne vado'.
In memoriam Giulia Mafai, 13 gennaio 1930 – 26 settembre 2021