FERNANDA WITTGENS
Una vita d’impegno intellettuale e civile (1903-1957)
La storia di Fernanda, il suo arrivo a Brera e l’inizio della guerra. La lotta al fascismo e l’arresto. Una donna instancabile, di grande profondità introspettiva, impegnata sia professionalmente che politicamente, si racconta nelle lettere ai familiari, durante la detenzione.
Fernanda e Brera
Fernanda Wittgens nasce a Milano nell’aprile del 1903. Il padre, professore di lettere al liceo Parini, educa i figli non solo al rispetto per lo Stato con valori democratico-risorgimentali, ma anche all’amore per l’arte, grazie alle visite domenicali ai musei. Sotto la guida di Paolo D’Ancona, Fernanda si laurea con lode nell’ottobre 1925 con una tesi in Storia dell’arte, presso l’Accademia Scientifico Letteraria di Milano.
È Mario Salmi, allora ispettore a Brera, a presentare, nel 1928, la giovane ma già brillante storica dell’arte a Ettore Modigliani, dal 1908 direttore della Pinacoteca e soprintendente alle Gallerie della Lombardia. Assunta così a Brera come operaia avventizia, svolge di fatto funzioni tecniche e amministrative di ispettrice.
Modigliani trova in Fernanda l’assistente ideale, tecnicamente e scientificamente preparata: è capace, attivissima e instancabile. Quando, nel 1935, viene allontanato dall’amministrazione delle Belle Arti, accusato di antifascismo, e costretto al confino a L’Aquila, Wittgens continua la sua opera, informandolo costantemente in segreto. Anche quando quest’ultimo, a causa delle sopraggiunte leggi razziali, viene espulso dall’amministrazione dello Stato, lei gli rimane intellettualmente vicina.
Nel 1940 Wittgens partecipa e vince un concorso ottenendo la nomina per la Pinacoteca di Brera: è la prima donna in Italia a ricoprire tale incarico nel ruolo del personale dei Musei e Gallerie. Da subito desta stupore lo stile di lavoro e la vibrante umanità che Fernanda coltiva nei rapporti con i superiori, i colleghi e tutto il personale di Brera.
Fernanda e la Guerra
Al profilarsi del conflitto, Fernanda si occupa personalmente del trasporto delle opere di Brera nei ricoveri. Ed è ancora lei, dopo l’armistizio, nella totale vacanza del potere centrale in materia di tutela dei beni artistici, ad affrontare l’immenso compito di salvare, dalla razzia tedesca, le opere della Pinacoteca, del Poldi Pezzoli, della Quadreria dell’Ospedale Maggiore e di molte altre raccolte. Con l’organico ridotto a poche persone, con mezzi di fortuna recuperati tra enormi difficoltà, sotto i bombardamenti nemici, Fernanda trasloca le opere in una nuova località sicura.
Il suo prestigio personale e le amicizie su cui può contare la pongono in una condizione per certi aspetti privilegiata, che le permette, fin dallo scoppio della guerra, di aiutare familiari, conoscenti, uomini e donne perseguitati, a espatriare.
All’alba del 14 luglio 1944, a causa della delazione di un giovane ebreo tedesco collaborazionista, per il quale ha in precedenza organizzato l’espatrio, Fernanda è arrestata e condannata dal Tribunale speciale a quattro anni di carcere. Resta reclusa, prima a Como e poi a Milano, a San Vittore, fino al febbraio del 1945, e poi detenuta fino alla Liberazione in una clinica milanese.
Dalla corrispondenza del carcere emerge la figura di una donna che desidera profondamente far comprendere ai suoi cari, le ragioni e le motivazioni che hanno nutrito il suo impegno sia professionale che politico. Per Fernanda l’arte ha una funzione sociale e morale e deve per questo essere offerta a tutti come strumento di elevazione e conoscenza. Tra gli scritti prodotti durante la sua detenzione, emergono inoltre delle riflessioni intime e di grande lucidità introspettiva sulla sua femminilità.
Quando crolla una civiltà e l’uomo diventa belva, chi ha il compito di difendere gli ideali della civiltà, di continuare ad affermare che gli uomini sono fratelli, anche se per questo dovrà… pagare? Almeno i così detti intellettuali, cioè coloro che hanno sempre dichiarato di servire le idee e non i bassi interessi, e come tali hanno insegnato ai giovani, hanno scritto, si sono elevati dalle file comuni degli uomini. Sarebbe troppo bello essere intellettuale in tempi pacifici, e diventare codardi, o anche semplicemente neutri, quando c'è un pericolo. L'errore delle mie sorelle e tuo è di credere che io sia trascinata dal buon cuore o dalla pietà ad aiutare, senza sapere il rischio. È invece un proposito fermo che risponde a tutto il mio modo di vivere: io non posso fare diversamente perché ho un cervello che ragiona così, un cuore che sente così
FERNANDA WITTGENS
Lettera dal carcere di San Vittore alla madre, Milano, 13 settembre 1944