FRANCO RUSSOLI
Il ricordo di Paolo Martelli
Ho conosciuto Franco Russoli nella prima metà degli anni Sessanta grazie ad amicizie comuni.
Abitavamo vicini ed è diventata presto una consuetudine vedersi ogni sabato pomeriggio a casa sua, insieme anche alla moglie Lella e ad altri amici, a discutere insieme.
Franco si prestava gentilmente a darci informazioni e notizie, era un uomo molto brillante ed empatico: aveva una simpatia naturale, non era un accademico, non uno di quegli esperti che facesse pesare la tua ignoranza e la sua sapienza, anzi, al contrario era disponibilissimo, sempre.
In più aveva un ottimo carattere, era molto allegro e, anche nell’affrontare i problemi – e ce n’erano tanti – non aveva mai una visione pessimistica, ma sempre positiva.
Grazie a lui sono entrato al Museo Poldi Pezzoli, rimanendoci per vent’anni.
A quel tempo Franco faceva parte del Consiglio d’Amministrazione ed era chiaramente la persona più qualificata, insieme a Lamberto Vitali, oltre ai rappresentanti del Ministero, Vigli, Antonio Paolucci, Gian Alberto Dell’Acqua, Alessandra Mottola Molfino e Annalisa Zanni, al tempo assistente della Molfino.
LAMBERTO VITALI
Nel consiglio del Poldi Pezzoli avevo la funzione di traduttore, nel senso che ero vicino a Lamberto Vitali, con un un deficit uditivo, e stava a me riassumergli quello che stava succedendo.
Era in grado di capire l’interlocuzione diretta, ma se parlavano in più persone non comprendeva e mi scriveva dei bigliettini dicendo: “Che dicono? Che dicono?”. Lamberto era un gran carattere, un personaggio assolutamente straordinario, grande amico di Franco.
Franco ha vissuto una stagione straordinaria per Milano in cui, nel mio ricordo, si poteva assimilare la coppia Wittgens-Russoli per l’arte a Grassi-Strehler per il teatro.
Si trattava di recuperare 25 anni di isolamento dell’Italia e in qualche modo fu più facile per il teatro: vi erano i testi, tutto il teatro francese, americano, inglese che non avevamo mai sentito.
Allora ero studente ed era sempre una festa poter andare ad assistere a una nuova rappresentazione; era un’assoluta novità per noi, ci introduceva in un mondo che non conoscevamo.
WITTGENS-RUSSOLI
Wittgens e Russoli, in sostanza, per quel che riguarda le arti figurative avevano la stessa aspirazione, riunificare l’Italia facendole recuperare 25 anni perduti, come nel caso della bellissima mostra su Picasso del 1953.
Russoli parlava di Fernanda Wittgens con grande ammirazione e con grande affetto, ne aveva una altissima stima e considerazione.
Me la descriveva come un generale prussiano, che lo faceva trottare e correre come pochi, dandogli però anche grandi responsabilità. Franco si sentiva il suo protegée, ma nel senso profondo di una condivisione delle stesse idee, della stessa visione.
IL MUSEO DI RUSSOLI
Franco era un uomo di sinistra, nelle nostre conversazioni non abbiamo mai attraversato problemi politici di governo, ma problemi culturali. Per Franco Russoli la cultura era un fatto sociale: il museo non era un luogo in cui dover andare, era un luogo che doveva attrarre le persone e ristabilire quei rapporti in un periodo – quello dell’arte contemporanea – che noi non conoscevamo.
Si cerchi dunque in ogni modo di far intervenire il museo in tutte le attività culturali dell’ambiente in cui funziona: non come sede di contemplazione o studio della tradizione, ma come luogo in cui si costruisce e si vive lo sviluppo della realtà contemporanea. Non occupazione per il “tempo libero”, bensì per il “tempo impegnato".
Durante le visite alla mostra di Picasso, che comprendeva anche Guernica, non c’era la consueta guida autorizzata ma c’erano persone qualificate che rispondevano alle domande. C’era già la volontà di aprire il museo tramite le mostre, di aprire all’arte contemporanea e soprattutto alla comprensione e non alla semplice osservazione.
Questa è sempre stata la grande vocazione di Russoli. Dopo la morte della Wittgens, Russoli ha continuato il progetto e la visione della direttrice, in varie forme, anche come divulgatore.
Russoli sapeva parlare molto bene, era un comunicatore molto brillante e di facile comprensione e scriveva benissimo. Mi ricordo che una volta gli dissi:
“Beato te! Beato te che riesci a scrivere in maniera così chiara e così comprensibile, perché quando si leggono altri critici sull'arte contemporanea spesso non si capisce niente. Soprattutto io non capisco nulla perché sono un ignorante, ma quando leggo i tuoi scritti mi illumino. Hai veramente facilità di scrittura!”.
E lui mi disse:
“Facilità?? Quando io arrotolo il foglio di carta nella macchina da scrivere, mi prendono i crampi allo stomaco come quando facevamo il compito in classe al liceo, perché scrivere è facile, ma scrivere semplice è complicatissimo”.
Questo era il suo sforzo per comunicare: non desiderava spiccare per mostrare la propria superiore conoscenza ma credeva che l’intellettuale dovesse chiamare la società a raccolta e collaborare con essa, con grande semplicità e con grande facilità.
Ci si può chiedere perché avesse avuto dei rapporti così facili con i collezionisti? Perché era uno charmeur, era un uomo piacevolissimo. Ed era riuscito a instaurare relazioni facili con Gianni Mattioli, Emilio Jesi, Riccardo Jucker e persino con Giuseppe Panza di Biumo.
SPADOLINI E IL MINISTERO DELLA CULTURA
Nel 1974 Giovanni Spadolini costituì il Ministero della Cultura e iniziarono grosse difficoltà a causa della struttura burocratica e per la conseguente complessità nella gestione dell’attribuzione dei fondi in modo diverso, per compartimenti.
Se avanzava denaro alla manutenzione non era possibile adoperarlo per il personale, inoltre, i proventi che derivavano dalle mostre confluivano al centro e poi venivano ridistribuiti dal Ministero ai vari musei, disincentivando di fatto il singolo museo a impegnarsi con grandi sforzi nella realizzazione di eventi culturali. Spadolini non era però contrario alla visione di Russoli, era un uomo abbastanza illuminato.
QUANDO RUSSOLI CHIUSE BRERA
Probabilmente, Russoli ha chiuso il museo perché volle forzare un po’ la situazione, sapendo che così, a Roma aveva la possibilità di essere ascoltato, così fece – a mio modo di vedere – un gesto non dico provocatorio ma certamente fatto per sottolineare le difficoltà come la mancanza di fondi (e l’assegnazione di fondi è sempre una cosa che dipende dalla burocrazia oltre che dalla volontà del Ministro).
I cambiamenti di organizzazione sono drammatici perchè non è che li regola solo il ministro, ma è tutta la burocrazia.
Si crea uno spostamento di competenze che recide i vecchi legami, per quanto difficili sono esistenti, e ne devi creare di nuovi.
PALAZZO CITTERIO
Molti furono gli ostacoli da dover affrontare: Palazzo Citterio; il problema di riunire, per quanto possibile, le competenze sui vari musei di Milano (il Castello Sforzesco, il Poldi Pezzoli, la Pinacoteca di Brera); il problema delle Regioni che avevano competenze non ben definite, le relazioni con i collezionisti.
Russoli era anni luce avanti a quella che era la burocrazia fondata sui principi degli statuali sabaudi, che nutriva grande diffidenza nei confronti dei decentramenti.
L’accentramento delle competenze rendeva tutto estremamente difficile.
Nonostante avesse ben chiaro l’obiettivo a cui voleva arrivare, si tirava dietro un fardello faticosissimo che credo lo abbia stancato molto. Con l’ultimo atto del processo alla città, del “Processo al museo”, era sempre entusiasta ma più spento.
Un giorno venne nel mio studio, alle sette e mezza di sera – cosa abbastanza inconsueta per lui perché ci trovavamo abitualmente a casa sua – era il 21 di marzo.
Uscì dal mio studio e la mattina dopo era morto.
Fu una grande perdita per Milano, perché si fermò tutto.
Citterio era il suo grande progetto: un museo di arte contemporanea, anche se il museo non c’era, ma necessario per ottenere le collezioni che venivano donate. Lui parlava dell’arte contemporanea, del Beaubourg e di tutto quello che andava crescendo all’estero e a cui cercava di ricollegarsi, senza avere le strutture alle spalle.
È stata una grande fatica per lui: aveva una visione ben chiara, grande entusiasmo, forza, intelligenza e volontà di portare una Milano un po’ addormentata a livello internazionale, di contro aveva tanti ostacoli.
Franco Russoli aveva una visione dell’arte come espressione della società, non era un fatto a sé stante e isolato, ma da inserire nel contesto dell’evoluzione della società e quindi da collegare alla storia, all’economia, al processo di sviluppo di una città e anche della cultura italiana.
Il museo esca dall’isolamento settoriale e non si consideri disponibile soltanto per finalità di ricerca e di educazione specialistiche o come luogo privilegiato di meraviglie e di evasivi godimenti, e cerchi invece di far sentire integrante e necessaria, ad ogni aspetto e livello della vita sociale, la propria presenza.
Secondo il mio modesto punto di vista, la distanza che aveva percorso Franco, andando in avanti, era molto grande e non c’era la possibilità che qualcuno potesse seguirlo e sostituirlo. I successori appartenevano ancora, in perfetta buona fede, a un mondo che lui aveva lasciato alle spalle. Io ne parlo da profano, ne parlo da amico. Ma quando Franco morì tutti noi fummo consapevoli di aver perso un grande uomo, io come amico e credo Milano come elemento di propulsione e di crescita e sviluppo.
Per quanto fosse ovviamente un accademico che veniva da quel mondo, non aveva assolutamente l’idea che il museo dovesse essere solo un luogo di conservazione. Era un luogo di sviluppo della società. In questi ultimi anni però a Brera si è realizzata una trasformazione straordinaria.
Lo dico veramente con il cuore, perché oggi si dice:
“Dove andiamo?”.
“Andiamo a Brera”.