Eraclito e Democrito, 1486 circa
Donato Bramante (Donato di Pascuccio) - Affresco staccato trasportato su tela - cm 102 x 127
Gli otto dipinti, entrati nella Pinacoteca di Brera fra il 1901 e il 1902, provengono dalla casa acquistata nel 1486 dal poeta cortigiano e consigliere ducale Gaspare Visconti nell’attuale via Lanzone a Milano, passata in seguito alla famiglia Panigarola. La presenza di Bramante nell’abitazione di Visconti in qualità di testimone in un atto rogato nel 1487 e gli immediati riflessi del ciclo sulla pittura milanese del tempo fanno pensare che esso sia stato eseguito in tempi brevi, all’incirca negli anni 1486-1488.
Si può risalire all’aspetto originario e al significato iconografico dell’intervento di Bramante da diverse fonti. Un inventario redatto nel 1500 dopo la morte di Gaspare descrive una “camera di baroni” fra una “camera de la scola” e una “de li arbori”. Il senso della decorazione, legato alle frequentazioni del committente, è chiarito da un passo del Trattato dell’arte della pittura, scultura ed architettura che fornisce i nomi di alcuni personaggi dipinti nelle vesti di “baroni”: Pietro Sola detto Strenuus, maestro d’arme di Ludovico il Moro, il pittore e schermidore Beltramo Gariboldi e il non altrimenti noto Giorgio Moro “da Ficino”.
Dallo stesso Lomazzo si apprende della collocazione sopra una porta delle figure di Eraclito e Democrito, la prima piangente e la seconda che ride, citate come esempi di rappresentazione dei moti mentali. La provenienza del frammento raffigurante i due filosofi antichi da un ambiente diverso da quello degli Uomini d’arme, presumibilmente dalla stanza “de la scola”, è confermata dalla diversa scala dimensionale e dalla testimonianza di Venanzio De Pagave, che alla fine del XVIII secolo, nel manoscritto Dialogo fra un forestiere ed un pittore che si incontrano nella basilica di San Francesco Grande in Milano (Milano, Biblioteca d’Arte del Castello Sforzesco), specifica che Eraclito e Democrito si trovava in un’altra camera. Lo stesso autore tramanda il ricordo dell’architettura dipinta con “aguglie, vasi e piedestalli” che incorniciava le gigantesche figure dei “baroni” e che, già consunta dal tempo, all’epoca in cui scriveva, era stata scialbata e danneggiata dall’apertura delle finestre.