Cristo morto nel sepolcro e tre dolenti, 1483 circa
Andrea Mantegna - Tempera su tela - cm 68 × 81
L’ipotesi più accreditata, nonostante le incertezze dovute all’esistenza di diverse varianti dello stesso soggetto, identifica il dipinto di Brera con il Cristo in scurto ritrovato nello studio di Mantegna all’atto della sua morte, venduto dal figlio Ludovico al cardinale Sigismondo Gonzaga e inventariato tra i beni dei signori di Mantova nel 1627.
La sorte successiva del dipinto è tuttora oggetto di discussione fra gli studiosi, alle prese con una intricata serie di passaggi di proprietà solo parzialmente – e peraltro confusamente – documentati: secondo le più recenti ma non risolutive ipotesi, nel 1628 il dipinto fu venduto a Carlo I di Inghilterra insieme ai pezzi più prestigiosi della quadreria gonzaghesca; dalla collezione reale sarebbe poi passato al mercato antiquario e alla raccolta del cardinale Mazarin, dispersa la quale sparì per più di un secolo. Indizi sicuri si ritrovano solo agli inizi dell’Ottocento e fanno ormai parte della storia braidense dell’opera: nel 1806, il segretario dell’Accademia di Brera Giuseppe Bossi pregava infatti lo scultore Antonio Canova di mediare l’acquisto del suo “desiderato Mantegna”, che giunse finalmente in Pinacoteca nel 1824.
L’iconografia dell’opera, probabilmente destinata alla devozione privata dell’artista, rimanda allo schema compositivo del Compianto sul Cristo morto, che prevede la presenza dei dolenti riuniti attorno al corpo preparato per la sepoltura, deposto sulla pietra dell’unzione e già cosparso di profumi. La composizione produce un grande impatto emotivo, accentuato dall’impressionante scorcio prospettico: il corpo di Cristo è vicinissimo al punto di vista dello spettatore che, guardandolo, è trascinato al centro del dramma; inoltre, ogni dettaglio viene esaltato dal tratto incisivo delle linee, che costringono lo sguardo a soffermarsi sui particolari più terribili, sulle membra irrigidite dal rigor mortis così come sulle ferite, ostentatamente presentate in primo piano come stabilito dalla tradizione di questo genere d’immagine. Si tratta di un vertice assoluto della produzione mantegnesca, un’opera che per la forza espressiva, per la severa compostezza e per la maestria della finzione prospettica è diventata uno dei simboli più noti del Rinascimento italiano.